Teatro

Speciale NTFI 2014: 'Il treno e' arrivato, grazie a Dio!'

Speciale NTFI 2014: 'Il treno e' arrivato, grazie a Dio!'

Al teatro Mercadante è di scena Il giardino dei Ciliegi di Anton Cechov per la regia di Luca De Fusco. La premessa è che dialogare con i classici non è affatto facile; senza scomodare le note formule calviniane, possiamo dire, semplificando, che il classico presenta al lettore una serie di difficoltà sostanzialmente legate alla maniera in cui lo si legge. Possiamo leggere con l’innocenza di sdentati bifolchi oppure con la consapevolezza del frequentatore abituale dei postriboli letterari, dei recessi più bui della più dotta critica testuale; ognuno di questi modi presenta caratteristiche precipue: il bifolco s’illuminerà in viso ad ogni rigo senza comprenderne appieno il perché e, tuttavia, in ragione di questa sua innocenza, reagirà emotivamente e sinceramente ai messaggi che gli invia il classico; la meretrice ermeneuitica, dal canto suo, farà di tutto per leggere un’altra opera oltre a quella che ha sotto gli occhi, un’opera più piccina, ma più complessa e silenziosa, tutta chiusa nella mente del lettore navigato, e questo classico in seconda quasi sicuramente finirà col sovrapporsi completamente all’altro snaturandone o forse arricchendone la lettura. Quello che di sicuro il bifolco e il dotto hanno in comune è che termineranno la loro impresa ognuno nella maniera che più gli si confà; entrambi avranno il coraggio di portare a compimento il loro personale processo di lettura che il più delle volte si delinea come una vera e propria violenza ai danni del classico.

È questo coraggio di bifolco o di segaligno intellettuale che purtroppo manca a De Fusco, il suo approccio al classico cechoviano è a conti fatti anodino. Cechov non sanguina e noi ci annoiamo. La scena di Maurizio Balò ci mostra la tenuta della possidente Ljuba come un ghiacciaio abbacinante, un bianco salotto siderale con tanto di caratteristiche spaccature lungo le pareti. È, naturalmente, l’ipostatizzazione del passato che ha in mente Balò, il passato che per i personaggi di Cechov ha quasi sempre aurea consistenza, ma che tuttavia si risolve, nella maggior parte dei casi, in un’ossessiva e claustrofobica elegia dei tempi che furono. Nel secondo atto, ambientato all’esterno della casa padronale, la scena è di poco modificata, vengono calati dall’alto grossi aquiloni, anch’essi bianchissimi, che sottolineano l’infantilismo di questi antichi e cristallizzati padroni incapaci di opporre alla ragione e alla consapevolezza del presente null’altro se non la levità scherzosa dei bimbi, appesantita dalle mollezza di agi che sono soltanto un ricordo. Il tutto è molto stimolante, almeno per il primo quarto d’ora di spettacolo; poi tutto quel bianco, quella algida fissità mescolata alla porzione di immobilità connaturata al testo cechoviano diventano insostenibili.

Né la recitazione aiuta a rendere la grevità dello spettacolo più sopportabile. Il primo atto si apre su Lopachin (Claudio di Palma), Dunjasa (Serena Marziale) ed Epichedov (Gabriele Saurio) che recitano distesi sul proscenio fino all’arrivo di Ljuba e i suoi – in realtà già presenti sul fondo della scena assiepati su di una scalinata e immobili come statue di sale –, e sembrano suggerire che ad apertura di sipario sia scattato come un processo di progressivo disgelo dei personaggi che li porti pian piano a rianimarsi e a vivere la loro storia in teatro. Tuttavia a questa suggestione iniziale non ne seguono altre e il registro interpretativo si appiattisce su di un approccio ai personaggi di stampo naturalistico che riecheggia inevitabilmente le mise en scène storiche della commedia. L’uso del dialetto napoletano, che De Fusco motiva con una calzante analogia tra la nobiltà terriera partenopea del secolo scorso e quella russa protagonista delle opere di Cechov, si rivela quasi subito come una scelta infelice; gli attori acquisiscono come una sorta di dizione cadenzata, i dialoghi di alcuni personaggi si infittiscono di vezzi e florilegi dialettali (del tipo bellezza mia...), rendendo, se possibile, ancora più estenuante la fruizione dello spettacolo. Quello che forse più di tutto delude, tuttavia, è il risultato della collaborazione di De Fusco con la coreografa Noa Wertheim, leader della compagnia di ballo israeliana Vertigo Dance Company. L’occasione di rimodellare la partitura fisica degli attori su inediti registri espressivi, rivoluzionando e al contempo donando nuova vita al classico russo, non è minimamente presa in considerazione dal regista e gli attori ballano solo quando devono ballare. Trofimov richiama tutti all’ordine, il treno è in stazione e si rischia di far tardi, escono tutti… grazie a Dio!